sabato 22 gennaio 2022

Ostjuden

Ostjuden, in yiddish: מעריבֿ־אשכנזים, mayrev-ashkenazim, stava a indicare, con senso dispregiativo, l'ebreo dei territori dell'Europa orientale.

Per Primo Levi, Ostjuden è preghiera laica degli internati; è una invocazione dell'umanità ed è riconoscimento nell'umanità, ossia appartenenza al genere umano e riconoscimento di sè nei compagni (un popolo, una discendenza, i compagni di sorte). 


Padri nostri di questa terra,

Mercanti di molteplice ingegno,

Savi arguti dalla molta prole

Che Dio seminò per il mondo

Come nei solchi Ulisse folle il sale:

Vi ho ritrovati per ogni dove,

Molti come la rena del mare,

Voi popolo di altera cervice,

Tenace povero seme umano.


Primo Levi

7 febbraio 1946


sabato 30 ottobre 2021

L'esperienza dell'altro

Alla condivisione con gli altri del proprio spazio e del proprio tempo con gli altri avevo dedicato, tempo fa, addirittura un blog chiamato "Animali sociali". Sotto la spinta dell'idealismo avevo creduto di affrontare (e risolvere) un dilemma che coincide con l'esistenza umana: vivere nel proprio corpo, come individui, con le proprie idee, i propri ideali, pensieri, ma all'interno della società e, quindi, sempre e inevitabilmente in mezzo agli altri. Il dilemma rimane, la soluzione va ancora cercata o, meglio, non esiste. Questo essere al contempo individui e animali inseriti e calati nel mondo insieme agli altri è una realtà con cui fare i conti, non un a costruzione astratta.

In questa realtà, l'amore è forse l'esperienza dell'altro più travolgente e dolorosa, contesa fra attimi di smarrimento in cui si perde il controllo di sé per cercare l'altro e momenti di completamento in cui rinuncia all'egoismo del sé per sperimentare in modo completo quella partecipazione e condivisione con l'altro.

La conoscenza di sé e l'amore per l'altro
Secondo Freud, l'amore è sempre un atto di egocentrismo. Si ama o dice di amare qualcosa o qualcuno per affermare di amare se stessi. L'altro è un'immagine riflessa di sé: si ama l'altro perché corrisponde a un'immagine o a un'ideale in cui ci si rispecchia.
Questa ricostruzione cinica dell'amore ha senz'altro un suo fondamento biologico. Ma non esaurisce ogni forma di amore. Se volessi essere ideal-romantico, potrei dire "non è l'amore vero". Con un po' più di realismo mi limito a dire che non è l'amore inteso come reale interesse per l'altro. Questo amore, infatti (l'interesse per l'altro, dove inter-esse, in latino, vorrebbe dire stare in mezzo all'altro, partecipareessere coinvolto nella sua vita), questo amore è, parafrasando Recalcati, amare le imperfezioni dell'altro, le sue anomalie, le sue turbe mentali, la sua scarsa igiene, riconoscere «per me e solo per me, le tue anomalie sono gemme che solo tu possiedi: amare significa "io amo tutto il mondo in cui ci sei tu"»
Detto con una formula che mi sembra efficace, amare è distinguere fra il mondo con te e il mondo senza di te.
Questa considerazione porta a scardinare alcune convinzioni sociali. Amare - in un'ottica egoistica che si finge moderna - significherebbe non sacrificare mai la propria libertà o la propria persona per l'altro. Questa convinzione è già logicamente fallace. Si fonda cioè su un concetto di libertà smisurata, smodata e irrealizzabile: libertà - scriverebbe Gaber - non è il volo di un moscone. Chi ama l'altro, cerca liberamente nell'altro e con l'altro il suo e il proprio bene. Chi ama l'altra sceglie liberamente di fare esperienza del mondo con l'altro. Chi sceglie di amare, sceglie liberamente il mondo con te. Il che non significa appiattirsi sull'altro, ma sapere e volere distinguere il mondo prima di te dal mondo dopo di te. E non c'è niente di più libero di una libera scelta consapevole.

La completezza e l'incompletezza
Si fanno quindi strada due diversi modi di intendere l'esperienza dell'altro. Dell'altro voglio sperimentare tutto, dell'altro voglio conoscere il mondo, anzi: voglio rileggere il mondo attraverso gli occhi di me insieme all'altro. In una meravigliosa canzone, Guccini recita:

Vorrei tornare nei posti dove son stato,
Spiegarti di quanto tutto sia poi diverso
E per farmi da te spiegare cos'è cambiato
E quale sapore nuovo abbia l'universo.

Il sapore nuovo non è un'allucinazione dell'amore che fa vedere in modo annebbiato il mondo prima di te; il sapore nuovo è sperimentare quelle stesse cose con un altro sguardo, lo sguardo del mondo con te o dopo di te, che è uno sguardo a due sulle cose.

Secondo il famoso mito degli androgini di Platone, questa esperienza (l'esperienza dell'amore) è l'esperienza del completamento di sé. Stando a Platone, infatti, in origine sarebbero esistiti degli esseri mitologici, gli androgini appunto, per metà uomini e per metà donne, cuciti tra loro a formare un unico essere completo in sé stesso. L'invidia degli dèi però, che vedevano in questi esseri completi e felici una minaccia per l'ordine divino (senza paura e insoddisfazione, senza incompletezza non può esserci potere e supremazia), li portò a disgiungerli, a disunirli, a separarli fisicamente, dando origine alla stirpe umana come oggi la conosciamo. Da allora, secondo Platone, ciascuno vaga per il mondo alla ricerca della parte complementare. L'amore, l'esperienza dell'altro è la ricerca del completamento di sé; l'individuo, di per sé, è incompleto e necessita dell'altro per dare sfericità alla propria esistenza.

L'animale morente
Totalmente opposta sembra la prospettiva dello scrittore Philip Roth, uno dei più grandi autori contemporanei scomparsi di recente. Nel romanzo di Roth L'animale morente, l'amore emerge come atto di rottura della completezza di sé. L'essere umano solo è completo in se stesso; trova in sé quello di cui ha bisogno: sa bastare a se stesso. La condivisione, la partecipazione dell'altro rompono questo equilibrio: l'altro introduce una dimensione di mancanza, di incertezza. Rispetto all'altro si è esposti: esposti alla sua promessa di amore, esposti ai suoi ripensamenti, esposti alle sue ferite. In sintesi, esposti al fuoco amico. Per dirlo con una poesia di Dylan Thomas (una delle mie preferite):
Amico da nemico io ti sfido
Tu con monete false nella borsa degli occhi,
Tu amico mio dall'aria accattivante
Che per vera mi rifilasti la menzogna
Mentre spiavi bronzeo i miei più gelosi pensieri.

L'amore espone al rischio (come l'amicizia). Il rischio della promessa che sottintende lo spergiuro e il cambiamento, il rischio della dipendenza.

L'amore, in questa prospettiva, fa sperimentare l'incompletezza, quella da cui lo stare con sé ci preservava.


Conclusioni provvisorie

Il senso di completezza e incompletezza, nel rapporto con l'altro, coesistono. La psicanalisi, ossia l'analisi consapevole di sé, ci insegna però che non dobbiamo lasciare i nostri comportamenti al caso. Che non dobbiamo subire passivamente e che dobbiamo cercare di dare un ordine alle nostre spinte inconsce. Capire le cause dei nostri impulsi e orientarli verso azioni e pensieri consapevoli. Se l'esperienza dell'altro non è un semplice subire la spinta verso il completamento, verso l'accompagnarsi all'altro, ma diventa una scelta consapevole e volontaria di chi intende vivere collettivamente il mondo, ecco che allora si recupera quella forma di amore veramente cosciente. L'interesse reale per l'altro. Un amore che nasce come casualità, come spinta istintiva, ma che diventa la scelta volontà di condividere la propria esistenza con l'altro. 

sabato 2 ottobre 2021

Tu non sai che mi manca l'aria

Tu non sai che mi manca l'aria 

e mi manca il sonno,

tu che una volta mi davi sonno e aria.

E adesso aspetto che passi la notte

contando la lana e i granelli di fango,

lavando via il fango con l'acqua

e non mi accorgo che, bagnandolo,

mi entra nella carne e mi leva l'aria.


(Simone Risoli)

Una poesia di Pessoa

Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta,
dicendo che è un mio emissario,
non credergli, anche se sono io;
ché il mio orgoglio vanitoso non ammette
neanche che si bussi
alla porta irreale del cielo.
Ma se, ovviamente, senza che tu senta
bussare, vai ad aprire la porta
e trovi qualcuno come in attesa
di bussare, medita un poco. Quello è
il mio emissario e me e ciò che
di disperato il mio orgoglio ammette.
Apri a chi non bussa alla tua porta.

lunedì 23 ottobre 2017

Oltre il confine stabilito

Proponiamo il contributo da me redatto e pubblicato sulla rivista di diritto costituzionale "Stato e chiese".
Il saggio si occupa dei rapporti fra Stato e diritto internazionale, con particolare attenzione ai rimedi applicati dalla Corte costituzionale per la tutela dei diritti fondamentali in caso di loro violazione da parte di atti provenienti dall'ordinamento dell'Unione europea e della Comunità internazionale. 
Troverete qui il link per leggere l'articolo


Buona lettura! 

domenica 16 ottobre 2016

Sul referendum costituzionale



Carissimi lettori,
in questo post pubblicherò una presentazione dedicata al referendum costituzionale su cui si voterà il prossimo 4 dicembre. Si tratta di slides che presentano alcuni punti, mettendo in luce che cosa e come cambia, annotando anche alcune questioni aperte o problemi.
Esiste non poca disinformazione sul referendum, spesso trattato con leggerezza. La revisione costituzionale, invece, nel bene o nel male, incide su regole fondamentali dello Stato, intervenendo sull'organizzazione dei poteri e le funzioni degli organi costituzionali. Forse in maniera troppo approssimativa e senza affrontare nodi centrali.
La riforma cambia, infatti, molte regole fondamentali del funzionamento dello Stato, ma non incide su materie fondamentali, la cui riforma attende da un cinquantennio e che è lasciata alla buona volontà dei legislatori futuri: una riforma radicale della pubblica amministrazione, per esempio, uno statuto per i partiti e per la selezione della classe politica, una riforma e semplificazione della giustizia, spesso riformata "per pezzi" e in modo caotico e astruso per il cittadino comune.
Su altri punti, si interviene senza eliminare le cause, rischiando perciò di creare problemi (le competenze del Senato, il procedimento legislativo che si snoda in oltre sei procedure diverse, il Senato che ha potere di veto sulla Camera).
Senz'altro cambia molto, ma occorre valutare - ognuno per conto proprio - in che modo cambi: se in meglio o in peggio.
Non poche sono le perplessità che questa legge di revisione solleva: un Senato depotenziato, ma onnipresente; un bicameralismo che non viene superato e che crea potenziali conflitti fra Camera e Senato, da decidere davanti alla Corte costituzionale, con rischi di ricorsi e illegittimità delle leggi; un Senato che conserva diversi poteri, ma non è più eletto direttamente dai cittadini; una volontà di ridurre i tempi decisionali, affrontata però con strumenti inefficaci (che, secondo alcuni rilievi, rischiano di rallentare ulteriormente il sistema). Per esempio, ora una legge impiega in media 90 giorni per essere approvata (un tempo breve, al di là di quel che si pensa) ed esiste inoltre uno strumento per farle approvare subito (la c.d. fiducia); domani, il Senato potrà ritardare le leggi, la Camera non avrà invece un termine per approvarle e, al massimo, il Governo potrà chiederle di pronunciarsi entro 60 giorni, che si aggiungono ai vari ritardi provocati dal Senato (quindi: in totale non meno di 90-100 giorni per una legge).
Altri dubbi riguardano l'elezione del Presidente della Repubblica, eleggibile dalla maggioranza dei votanti e non più dei componenti, quindi, potenzialmente, dal solo partito di maggioranza. Ma non sfuggono le proposte di legge popolare, per le quali viene triplicato il numero di firme necessario e si assegna ai futuri regolamenti la loro discussione e approvazione da parte del Parlamento.
Ma queste sono considerazioni (estremamente brevi) a latere. Nelle slides che precedono sono invece riassunti dati, norme e punti essenziali, in base ai quali formarsi un'opinione (si spera informata): perché il voto migliore è quello espresso con coscienza di ciò su cui si sta votando!

S.R.

giovedì 4 agosto 2016

Partiti di massa e masse di partiti

Nell'Ottocento, dopo l'unità, la situazione politica dell'Italia era rappresentata da una serie di partiti di notabili, associazioni prevalentemente private, circoli di galantuomini, borghesi o aristocratici che si dedicavano all'arte del governo. Di vera e propria "arte" si può parlare, perché la gestione dello Stato era riservata, destinata a pochi ma, soprattutto, non si rivolgeva alle masse. La vita politica era poco diversa da un'attività ludica e raffinatissima riservata a pochi esponenti che, per l'appunto, rappresentavano l'élite al potere. Le masse, di fatto, non erano rappresentate: i politici di professione o i galantuomini prestati alla politica non erano diretta proiezione di gruppi o interessi sociali. Poco diversa era la situazione nel resto d'Europa: al di qua delle Alpi stavano i Cavour e i Giolitti, al di là i Bismarck e i lord o i grandi industriali al Governo.
Come insegnava anche il mio caro professore di Storia del liceo, quel che caratterizza il Novecento e lo distingue nettamente dalla politica dei notabili della Destra e Sinistra storiche fu invece l'avvento dei partiti di massa. Il Novecento ha cioè generato - attraverso le nuove istanze sociali, i movimenti e la progressiva affermazione del suffragio universale - un nuovo scenario politico fondato sulla rappresentanza e sulla rappresentatività. Prima ancora che nelle istituzioni, dove il processo fu più lungo e irto, i partiti politici smisero di essere quei circolo di galantuomini illustri - talvolta innegabilmente illuminati - e iniziarono a diventare associazioni rappresentative di ceti o di interessi. Ogni gruppo, ogni formazione di cittadini accomunata da istanze o bisogni condivisi cercava un referente in un partito politico; da parte sua, il partito si costituiva proprio perché rappresentava o tendeva a rappresentare quelle istanze o bisogni oppure perché mirava a rappresentare a livello politico e istituzionale un certo gruppo sociale. Contadini, operai, industriali, religiosi, ma anche capitale, lavoro, ecc. Poco importa che cosa o chi rappresentassero: il punto di svolta era il nuovo criterio fondativo di quei partiti.
Di conseguenza - o a causa di ciò - la partecipazione stessa alle nuove formazioni partitiche registrava un'affluenza enorme, di gran lunga superiore all'epoca ottocentesca dei partiti dei notabili, anche perché il diritto di voto veniva esteso e con esso aumentava la consapevolezza che la politica non fosse un'attività come la falconeria ma un terreno in cui si confrontano e decidono interessi sociali fondamentali. Cittadini e gruppi sociali partecipavano in massa alla vita politica sia perché era caduto il principio secondo il quale il Governo era un'arte o un privilegio d'élite; sia perché i partiti si candidavano a rappresentare interessi comuni e diffusi e, talvolta, veri e propri bisogni. Erano partiti di massa perché rappresentavano interessi di masse; ma erano partiti di massa anche perché le masse, vedendosi rappresentate, partecipavano con interesse alla determinazione della vita politica. "Di massa" in senso soggettivo, quindi, perché le masse li componevano o quantomeno vi si riconoscevano: ne erano cioè rappresentate. Ma anche in senso oggettivo e cioè rappresentativi delle esigenze e delle rivendicazioni dei ceti.
L'avvento dei partiti di massa ha concretizzato il principio di rappresentanza e di rappresentatività: da una parte, ha reso effettiva e ampia la partecipazione e il coinvolgimento, l'interesse delle masse alla vita politica in quanto terreno di discussione dei propri ideali e interessi; dall'altra, ha permesso, per mezzo del partito stesso, di dare spazio e forza agli interessi e ideali concreti della cittadinanza. Da una parte, quindi, maggiore partecipazione; dall'altra, avvicinamento della politica alla vita sociale. 
Il partito diventa strumento di partecipazione della società civile alle istituzioni, concetto che peraltro si rinviene nella Costituzione italiana del 1948. E lo diventa perché si fa interprete di istanze presenti nella popolazione; ma anche perché, di conseguenza, la popolazione si sente chiamata in causa e partecipa in massa, attraverso i partiti, alla res publica.
Ora, è evidente che ad oggi il nostro Paese attraversa una fase di profonda crisi della rappresentanza politica. E' evidente una forte disaffezione alla politica, una scarsa affluenza alle urne durante le consultazioni elettorali, bassissime percentuali di votanti e un forte allontanamento dai partiti. Troppo facile sarebbe affermare che, in casi come questi, chi non vota ha sempre torto perché lascia decidere agli altri. Bisognerebbe invece seriamente considerare le cause di questa disaffezione che sfocia nell'astensionismo e, quindi, nella mancata partecipazione alla vita politica. 
Ebbene, da quanto si può fin qui capire, la principale causa di questa crisi di rappresentanza dei partiti risiede proprio nella inidoneità o - se si vuole usare un termine "incolpante" - nella incapacità di quei partiti di rappresentare bisogni, interessi e ideali sociali. Partecipazione attiva dei cittadini (che concretamente significa voti e consensi) e rappresentatività di interessi e ideali sono due facce della stessa medaglia. Se la capacità di rappresentare queste istanze non esiste, se cioè i partiti non rispecchiano istanze e non incarnano gruppi sociali, quegli stessi gruppi si disinteresseranno inevitabilmente dei partiti e della politica. 
Il rischio che si corre, però, non è allo stato dei fatti un ritorno ai partiti di notabili, ma piuttosto un passaggio dai partiti di massa (fondati sulla rappresentanza nelle due direzioni) a masse di partiti. Il passaggio, cioè ad associazioni indistinte, spesso trasversali, che non rappresentano interessi effettivi o formazioni sociali e istanze specifiche, ma che nascono e si sviluppano in regime di totale indifferenza rispetto alla società civile e alle classi sociali: e all'indifferenza, non si può che reagire con altra indifferenza. Di gran lunga peggiore è poi la percezione e spesso l'oggettività che alla rappresentanza di bisogni e interessi dei gruppi sociali si sostituisca un unico interesse corporativo: quello alla conservazione del solo potere. 
Masse di partiti sono insomma accozzaglie indistinte e prive di identità politica che non perseguono ideali, progetti, interessi con cui le masse posso confrontarsi e in cui potrebbero rispecchiarsi. La perdita di identità e di chiari ideali o interessi da rappresentare è infatti il primo motivo della disaffezione. Di questo non si può accusare certamente la sola popolazione che diserta le urne, così come non si poteva accusare il popolo che - in quel caso per legge - veniva tenuto lontano dalla politica ai tempi dei notabili ottocenteschi. Ma se in quest'ultimo caso la politica era lontana dalle classi sociali perché era un'attività alta e altra che nel popolo cercava solo una legittimazione formale, ora siamo invece davanti a un divorzio in cui la parte offesa è proprio la società civile che non trova punti di compatibilità. Non si può in questa circostanza risolvere la questione con un'accusa secca all'astensionismo se non si comprendono le ragioni del "coniuge offeso". Sono le masse ad allontanarsi dalla politica, perché la politica non riesce più a rappresentare i loro compositi interessi. Questa forma di alienazione dei partiti dalla vita sociale conduce inevitabilmente a una frattura di cui non si può incolpare la maggior parte degli elettori che, pur godendo della massima libertà, non possono che scegliere fra le offerte presenti sul mercato politico oppure non scegliere. Sempre maggiore è l'avvicendamento di formazioni politiche minori, transfughi, malaffare che induce poi la popolazione a diffidare della politica e a lasciare la scelta nelle mani dei pochi elettori superstiti. Il risultato è evidente a tutti: basterebbe cambiare rotta, se lo si vuole.

lunedì 25 aprile 2016

Il diritto di resistenza

La storia del diritto di resistere al potere illegittimo coincide con quella della democrazia. Il suo contenuto, il valore, la sua portata sono variati nel corso del tempo, richiamando ora il diritto naturale, ora quello divino, fino a confondersi nelle Costituzioni moderne con le più fondamentali libertà della persona.
Non è un segreto che la Costituzione italiana, così come molte costituzioni del dopoguerra o nate all'indomani di regimi autoritari, sia una costituzione partigiana. Dalla Resistenza al nazifascismo è nato il sistema delle libertà fondamentali attualmente in vigore e con la Resistenza si è affermata l'idea di diritti individuali e universali.
Non è un mistero che gli stessi padri costituenti, molti dei quali avevano in prima persona combattuto la guerra contro l'oppressione fascista, vollero escludere il rischio che all'indomani della liberazione si ripetesse l'esperienza liberticida. Meno noto è che quando discussero uno degli architravi del nuovo sistema, quello che prevede la partecipazione dello Stato alla vita internazionale, si interrogarono su quali regole e diritti della Comunità internazionale dovessero avere il primato, una forza addirittura superiore alle leggi nazionali (per i lavori preparatori all'art. 10 Cost., si vedano le diverse raccolte di Atti della Costituente). Memori della Resistenza, gran parte dei deputati intuì la necessità di riconoscere come inalienabile il diritto dei popoli oppressi a ribellarsi ai governi oppressori. E così, in linea con una parte della Comunità internazionale, ogni potere che vessasse il proprio popolo veniva in sostanza a configurarsi come illegittimo e ciascun popolo, specularmente, legittimato a rovesciarlo.
Il principio non fu formalizzato in maniera esplicita, ma sicuramente contribuì a sollevare una questione di prim'ordine: l'oppressione, l'eccesso di potere, l'uso distorto della forza diventavano la misura insuperabile, la scintilla che aziona un vero e proprio diritto: quello di resistere.
In questa forma però il diritto di resistenza - forse non citato ma sicuramente presupposto dalla Costituzione italiana del '48 - non si esaurisce nel passato, ma continua a valere o quanto meno a sfidare per il futuro e resta sempre attuale. Col XXV Aprile 1945 allora si celebrano non soli i fatti storici della liberazione da una dittatura totalitaria e disumana, ma anche il diritto dei popoli, costituiti da gruppi sociali e da individui con altrettanti incomprimibili diritti, a opporsi alle ancora numerose angherie e violazioni dei diritti basilari.
La lotta alla "tirannide" è stata sin dall'antichità il metro per riconoscere e rendere effettive le più basilari esigenze dell'uomo che il potere negava. Da Antigone, che coraggiosamente sfidava il divieto disumano di seppellire il fratello trucidato, a Locke che nel '600 rivendicava il diritto di resistere e ribellarsi al potere illegittimo che violava il patto coi suoi cittadini. Proprio con Locke il diritto di resistenza diventa uno dei paradigmi della libertà: i cittadini, non più sudditi, sono parte di quel patto con lo Stato, un patto di protezione che essi si sono impegnati a rispettare per il vantaggio che ne deriva ma che, al contempo, obbliga lo Stato a rispettarlo, comportandosi da buon padre di famiglia. Non è più ammesso allo stato liberale e ora democratico di violare quei principii.
Se questo è pacifico, resta da chiedersi però quando un potere diventi illegittimo: quando cioè violi quelle regole fondamentali del gioco che ne sanciscono l'espulsione e la sconfitta.
La memoria scorre diretta al buon Socrate. Secondo il racconto di Platone (nel Critone), la forza d'animo e l'integrità del maestro avevano spinto l'Ateniese ad accettare la pena di morte inflittagli dalla comunità. Una pena ingiusta ma, per Socrate, doverosa a cui perciò non avrebbe voluto sottrarsi. Cosa concludere dunque? Violare la legge è un disvalore maggiore rispetto alla resistenza a una decisione ingiusta?
A mio avviso la verità deve cercarsi nel mezzo. Tralasciando l'eroismo di Socrate che non è qualità da doversi pretendere, anzitutto legalità e resistenza sono valori che possono venire in conflitto. Non è questa la sede per spiegare che diritto e morale possano (e debbano) procedere su vie distinte; ma è questo il caso di comprendere quando moralmente e politicamente questo diritto di resistere sia preminente rispetto all'osservanza della legge. 
Muoviamo dal presupposto che la disobbedienza a un regime totalitario è la precondizione per violarne le leggi. D'altra parte, gli stessi gerarchi nazisti si difendevano durante il processo di Norimberga invocando l'ubbidienza a ordini superiori. E ciononostante la banalità di questa giustificazione non reggerebbe ad alcun giudizio di buon senso. Si coglie invece che proprio l'enormità e la gravità delle violazioni di quel regime giustificava una reazione al di fuori del sistema delle leggi
Durante la Resistenza al fascismo, gli stessi partigiani italiani erano, secondo il sistema vigente, fuorilegge. Formalmente - come scrive Fenoglio ne Il partigiano Johnny - nulla distingueva un partigiano da un bandito se non - si aggiunge nel romanzo - la sua ideologia. Ora, fuor di metafora, l'ideologia della Resistenza era proprio la libertà. Ma non una libertà astratta e dai confini indistinti, non una libertà-concetto: ma una libertà concreta, tangibile,che si manifestava in ogni forma di vita quotidiana, anche la più semplice. Libertà nel '45 significava sgomberare dai proiettili, dalle bombe, dai gas le strade, le scuole, le fabbriche, le case dei borghi occupati, delle città decimate, liberare la scansione delle giornate dal ritmo dei mitragliatori contro i corpi dei condannati sommariamente a morte, dalle fucilazioni, dal confino, dalla tortura, dalle rappresaglie; libertà nel '45 significava fermare i carri merce pieni di carne umana che in partenza per il massacro verso il fronte; libertà nel '45 significava fermare i vagoni ferrati ricolmi di uomini ammassati come bestiame, compagni di scuola, colleghi di lavoro, volti noti destinati alle deportazioni, ai lavori forzarti, allo sterminio razziale; significava recuperare quella dignità umana calpestata in ogni singolo aspetto della vita pubblica e privata, voleva dire non dover più chiedere allo Stato un'autorizzazione per sposarsi con chiunque e non doversi difendere da persecuzioni in base alla nascita, agli ambienti frequentati, alle opinioni espresse; libertà nel '45 voleva dire coltivare l'ideale di una Comunità nuova, in cui gli affetti non fossero sistematicamente sottoposti al placet dell'autorità; significava desiderare elezioni libere e realizzare un sistema di codecisione di un progetto comune.
Quel che significa oggi il diritto di resistenza, quindi, è a mio avviso insito nella finalità (la c.d. "ideologia") e nelle condizioni oggettive, intollerabili, in cui molti popoli e uomini versano.
Perciò è chiaro: rivendicare quel diritto non significa istigare alla violenza, ma vuol dire non trincerarsi dietro la banale rassicurazione dell'omertà o del conformismo. Resistere non è sinonimo di agire contro la legge, ma capacità e autonomia di discernere quando la disobbedienza è il più fondamentale dei diritti. Questo, purtroppo, bene può essere compreso dai popoli e le persone che di quelle libertà innegabili sono private: persone per le quali avere un'istruzione, frequentare luoghi pubblici, esprimere il proprio pensiero o avere una vita privata è tuttora impossibile. 
Questo 25 aprile è dedicato a loro.


giovedì 14 gennaio 2016

...è nato!

Da qualche giorno potete trovare su questo link il nuovo blog dedicato interamente alla poesia:



Buona lettura e a presto con nuovi articoli e interventi su temi di attualità e non solo, qui su figlidiodisseo.

venerdì 12 giugno 2015

Il giudice liberale

Controllori e controllati secondo due diversi sistemi culturali.


Quando il giudice di Brecht, protagonista di una sua celebre poesia, si trova a contatto con gli immigrati che deve esaminare all'ingresso negli USA, prova dentro di sé un forte bisogno di giustizia. Si chiede - implicitamente - se sia giusto respingere persone affamate che attraversano l'oceano in cerca di un lavoro e di sopravvivenza; si chiede se abbia senso respingerle se non superino l'esame di ammissione; e alla fine consente a uno di loro di passare i confini, facendo sì che risponda correttamente al test.
Ora, questo episodio suggerisce a prima vista due temi: in primis è lampante il richiamo all'attuale situazione di sbarchi dei moltissimi profughi di Paesi in guerra e dei migranti per questioni economiche che non consentono loro di sopravvivere in patria. Ma di questo argomento vorrei parlare meno frettolosamente, quindi rinvio la riflessione - e me ne scuserete. Del secondo, invece, ora dirò qualcosa.
Il giudice democratico di Brecht è senz'altro un giudice socialista: un'idealizzazione dello scrittore, che voleva incarnare l'idea di equità e giustizia, quell'idea che per essere perfetta deve trattare gli individui non allo stesso modo, ma comprendendone le difficoltà, gli ostacoli economici, le debolezze sociali e comportarsi di conseguenza. E' l'idea riassunta dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione italiana: "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (...)".
Se si osserva il modello americano, certo non si può ritenere che esista una tale figura, ma senz'altro si riscontra una figura di "giudice liberale", che ha una funzione speciale e che ai nostri sistemi, continentali e italiano soprattutto, manca. Si tratta di una funzione sociale riconosciuta dall'opinione pubblica e non da una legge. Perché se è vero che negli Stati Uniti il socialismo "non è di casa", è però vero che ai giudici (e, in senso lato, a chi esercita un ruolo di arbitro, un controllo finale su un'attività) è riconosciuta una fortissima autorevolezza, che è ben altra cosa dall'autorità. All'autorità di chi comanda si deve obbedire: lo impongono le regole; all'autorevolezza, invece, si riconosce un principio di giustizia, una ragionevolezza, una forma di rispetto e gratitudine, a cui si aderisce.
In quella concezione comune il "giudice liberale" è tendenzialmente un giudice buono. Non esercita poteri, non applica freddamente leggi, non costringe né limita libertà: non è questo che si pensa di lui. Fa valere i diritti, dirime le ingiustizie, riporta l'equilibrio (o ci prova): è il supremo difensore delle persone e delle loro pretese giuste; ed è questo che di lui si pensa. Il giudice non è un nemico che ordina e vieta,non è l'insensibile esecutore della legge, ma il sommo garante dei diritti. E questo non è semplicemente un mito.
Sin dagli albori della storia liberale americana, fu un giudice, agli inizi dell'800, a fare carta straccia di una legge che a suo avviso cozzava coi diritti fondamentali della Costituzione; e, ancora, fu la Corte Suprema, negli anni Venti del '900, a cambiare il modo di intendere la Costituzione per consentire al presidente Roosevelt l'approvazione del New Deal, l'atto rivoluzionario di ripresa del Paese. E tutto questo "a Costituzione invariata", senza cioè modificare una virgola del testo scritto alla fine del '700: perché non era necessario, perché il "giudice liberale" aveva, da solo, modificatone l'interpretazione, per renderla più moderna, al passo coi tempi e capace di rispondere ai bisogni attuali degli individui. Ma soprattutto, in tutto ciò, egli era percepito come l'amico del popolo e dei diritti, non come il cattivo castigatore o il guastafeste.
Quel che spesso da noi accade, invece, è che le regole e chi ne è il custode siano percepiti come limitativi, chi le applica è ritenuto insensibile alla vita dei cittadini, è colui che vuole mettere "il bastone fra le ruote" all'autonomia privata. I controlli ostacolano il progresso e sono inutili e dannosi; la funzione giudiziaria una forma di intromissione, spesso incompresa, se non addirittura una forma di persecuzione: il giudice è il controllore guastafeste. I controlli dell'autorità giudiziaria sono intesi come interventi eccessivi; le inchieste sulla corruzione sconfinano e invadono il campo della politica; la denuncia è sinonimo di spionaggio, slealtà e tradimento; le indagini e gli esposti sul malaffare, sugli illeciti nella gestione di opere e risorse pubbliche sono atti di disturbo, evitabili, che rovinano la tranquillità e la reputazione delle persone. Il controllore è il disturbatore pubblico, il moralista che "fa le pulci". Con tutte le riserve dei casi, gli esempi si moltiplicano: i processi contro i politici di turno sono operazioni infami e infamanti; arrestare chi mal gestisce il bene pubblico è eversivo perché delegittima e sovverte la volontà degli elettori; fermare grandi opere inquinanti o infestate da ruberie è una reazione al "nuovo che avanza". Così, ancora, quando si è abolito l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevedeva un accertamento del giudice sui licenziamenti ingiusti, si è sostenuto che quel controllo scoraggiasse le assunzioni, intralciasse l'attività d'impresa e introducesse privilegi; pochi si sono soffermati sulla sostanza: un controllo sul fatto che un licenziamento sia giusto o meno non è un danno all'impresa (che non deve temere verifiche di alcun tipo quando opera in buona fede), ma una garanzia di giustizia. Ecco, queste e altre situazioni hanno - e si sa - soluzioni più facili ma meno comode, ad esempio: commettere reati è di per sé un male sociale, e non il perseguirli; tenere lontani dalle cariche pubbliche soggetti che non possono (nemmeno legalmente) ricoprirle non limita la volontà popolare ma la attua ai massimi livelli; il voto non è un'esperienza catartica che purifica dando l'investitura, perché il potere è servizio alla comunità e non immunità, quindi può essere esercitato solo da chi è nelle condizioni di offrire un reale e utile servizio; indagare su opere in cui si annida la corruzione non è una piaga: la piaga sarebbe lasciar svolgere attività criminose che sfasciano il tessuto sociale (e la corruzione è la principale). E così via.
Chi controlla è ritenuto responsabile di rallentare o intromettersi (le cose - si può riassumere - andrebbero meglio senza). E il danno - si sostiene - è maggiore di quello che si avrebbe in assenza o con meno controlli e intromissioni. L'arbitro è oggetto di insulti delle opposte tifoserie, invece di essere percepito come colui che sorveglia sul regolare svolgimento del gioco. Questo è evidentemente un modo ideologico per affermare quel retaggio culturale primitivo di cui si fa fatica a liberarsi: coltivare ognuno il proprio orticello, voler essere lasciati in pace, percepire le regole come limiti stretti.
Epperò, contro una legge restrittiva si reagisce con la cittadinanza attiva per il cambiamento, non cercando sotterfugi, non con l'elusione. Nel nostro sistema culturale non manca il giudice liberale, il controllore giusto; manca principalmente il controllato onesto.